Dove scorre il fiume
Giovanni Sicuranza
5. La Donna Nera.
Quando
torna in superficie, la donna nera ha ancora addosso le oscurità dell’Aposa.
Si
è cambiata velocemente, ha dato liofilizzati e integratori al suo bambino, ha
di nuovo controllato che l’accesso al nido sia ben protetto dalla griglia, dove
il fiume perde slancio, ma non rinuncia all’umidità.
È
preoccupata per il piccolo, i pensieri si affollano, si confondono, si perdono
e si ritrovano in un modo sempre inaspettato. Domande che trasformano domande.
I
primi scalini del sottopassaggio nel quartiere Saragozza hanno una scritta
scorrevole, rossa. La donna nera appoggia i piedi sopra, con compiacimento. Un
refolo di sorriso, mentre legge i caratteri del neon che scivolano sotto di
lei.
“State
entrando nel Tempio dell’Aposa”.
Se
i Maestri hanno ragione, suo figlio non può morire. Protetto nel luogo
dell’acqua, anche in un ambiente umido e in penombra, sotto la città rovente,
il fiume lo proteggerà sempre.
“State
entrando nel Tempio dell’Aposa”.
La
donna si sporge oltre il muro delle scalinate. Nessuno in vista. Il mattino è
ancora uno sbadiglio, Bonomia riposa ancora e in ogni caso, prima di uscire, i
suoi abitanti sono obbligati a recitare il Credo all’Acqua. Una nenia di venti
minuti, come vuole la Legge.
Una
protezione o una condanna?
Il
pensiero è un flash che blocca la donna in una fotografia. Un piede sollevato
nel passo, una mano ancora sulla balaustra del sottopassaggio, lei alza gli
occhi al cielo.
Quante
volte, come adesso, vorrebbe tornare indietro, togliere il figlio dal
nascondiglio, annunciarlo al mondo. E crescerlo, senza doverlo sacrificare alle
acque come invece impone la Legge.
Ma
forse, adesso, c’è una soluzione. Basta non svelare proprio tutto.
Il
piede si appoggia all’asfalto. Nonostante manchino pochi minuti alle sei, il
calore della strada è già una presenza concreta attraverso la suola degli
stivali di ordinanza. Alle otto, uscire allo scoperto sarà già proibitivo senza
protezione totale.
Ora
la donna nera allunga il passo, lo sguardo deciso sul bar di fronte.
La
saracinesca è appesa a metà sulla vetrata d’ingresso. L’avvertimento che il
locale non è ancora aperto al pubblico. Ma a qualcuno sì.
-
Buongiorno – saluta velocemente lei.
La
figura in penombra dietro il bancale è intenta a riempire due tazze di citrato
fumante e, , nonostante riconosca un ufficiale della Milizia dalla divisa,
grugnisce appena, poi, con un gesto rapido di una mano, indica il tavolo in
fondo al corridoio.
Una
luce fioca abbozza i contorni della persona seduta.
La
donna nera si avvicina e, senza attendere l’invito, prende posto di fronte. Il
tavolo rotondo è già apparecchiato per due.
-
Il citrato ci protegge – inizia la figura in penombra – Integra il nostro corpo
e lo idrata per tutta la giornata. Almeno così ci piace pensare – una mano si
allunga sul tovagliolo steso davanti alla donna nera – Lo so, lei ne beve
tanto, anzi – una pausa, il tono che non nasconde la sferzata dell’ironia –
anzi, mia cara, ne beve per due. Le sue richieste settimanali sono raddoppiate,
ho letto il rapporto.
La
donna nera si muove sulla sedia, ma la figura è pronta a fermarla alzando la
mano.
-
Stia tranquilla, è una segnalazione e nulla di più. Tanto per toglierle ogni
dubbio, non è stato il Maresciallo Cerisoni a farci avere il rapporto.
Darlia
annuisce, ma solo perché sa che è quanto si aspetta da lei il Maestro e Giudice
Grazia Marasmat. In realtà ha qualche dubbio sull’estraneità di Cerisoni.
Da
quando ha nascosto suo figlio nei segreti del fiume sotterraneo, nonostante
stia attenta a non lasciarsi sfuggire nulla, nemmeno un’emozione, con i
colleghi del Presidio Religioso, ha l’impressione che il suo superiore sospetti
qualcosa. Forse solo il vago presentimento che lei nascondi qualcosa. Forse,
invece, solo una sua paranoia, il senso di colpa imposto dalla consapevolezza
di infrangere una delle Regole Maggiori.
-
Tutto a posto, Capitano Darlia? – sussurra il Giudice Marasmat, dopo che il
barista ha servito la bevanda in silenzio e si è ritirato nel buio.
Solleva
la tazza, sembra esitare, poi la sorseggia.
Darlia
non si muove, non parla.
-
Stia tranquillo, Capitano. Con me il suo segreto è al sicuro. Doveva solo farmi
questo piccolo favore.
-
L’ho fatto – sussurra infine lei. E di nuovo tace, la bevanda che rimane a
fumare ignorata.
-
Deve bere – la esorta il Giudice – Anche per suo figlio.
Darlia
annuisce, abbassa gli occhi sulla tazza, ma non la prende.
-
Io – inizia.
Il
Giudice appoggia la sua tazza sul tavolo in un gesto veloce, impaziente.
-
Capitano, qualcosa è andato storto con mio marito?
-
No, Maestro, no, anzi, l’ho lasciato accucciato sul pavimento. Il trucco sulla
pelle e la foto della Yersinia sono stati sufficienti a sconvolgerlo.
-
Quindi ha davvero creduto di essere contagiato e che la peste è tornata, qui, a
Bonomia – nel tono pacato del Giudice e Maestro si alza una punta di felicità –
Lui, noto infettivologo, si è bevuta questa sciocchezza! Bene, è stato umiliato
per il suo tradimento!
Darlia
accenna appena con la testa.
La
donna delle pulizie si era rivolta infine al Presidio Religioso e proprio
Darlia aveva raccolto la sua denuncia. Violazione del patto matrimoniale con un
Maestro. Era un reato grave. Quasi come quello di lei, che aveva appena deciso
di partorire e nascondere il figlio nella protezione del fiume Aposa.
Così
era nata l’idea.
Darlia
aveva osato. Invece di procedere all’arresto con pena di castrazione chimica,
aveva portato la storia del tradimento del dottor Erasmo Marasmat direttamente
alla moglie, nel Tempio Centrale di Bonomia.
Il
Maestro e Giudice Grazia Marasmat aveva emesso la sentenza nel privato di questo
stesso bar.
“Che
mio marito sia umiliato e che lo sia sulla sua immagine professionale”.
“Maestro,
lo sarà. Vorrei però che lei intercedesse per un mio peccato”.
E
Darlia aveva raccontato del figlio, perché sapeva che, senza protezione, prima
o poi qualcuno della Milizia lo avrebbe scoperto. O, peggio, un blasfemo tra
quelli che scendevano nei sotterranei del fiume senza autorizzazione.
Il
Maestro aveva annuito e il patto era stato sigillato con una bevuta di citrato
corretto alla menta.
-
Stupido uomo, farsi ingannare da finti bubboni! – soffia Grazia Marasmat. Il
fumo che sale dalla sua bevanda è spinto indietro, verso Darlia, come
spaventato e stupito da tanta emotività in un Maestro.
-
Si ricordi del patto, la prego – osa Darlia.
Il
Maestro sorride, o almeno così le sembra nella penombra.
-
Mio marito finirà umiliato negli show che tanto adora. Farò in modo che
l’annuncio sia dato entro questa sera al Grande Medico. Ed io avrò modo di
chiedere al Consiglio non solo la castrazione, ma anche tutti i suoi beni – una
mano si allunga lungo il tavolo, il palmo aperto in alto – Mi dia la prova,
Capitano, e suo figlio potrà crescere normalmente a Bonomia, senza che nessuna
Legge possa sfiorarlo.
Darlia
esita un istante, fissando quella mano affusolata, che emerge dalla penombra.
Ma sa che non ha scelte, anche se il rischio è alto. Deve fidarsi. Per la vita
di suo figlio. E poi i Maestri sono Onestà e Fiducia, come recita il Terzo
Verso della Costituzione del Fiume.
Però
non è certo l’onestà che ha ispirato il piano del Giudice Marasmat.
-
Capitano? – si sente esortare. Darlia ha quasi l’impressione che a parlare sia
stata la mano in attesa.
Del
resto anche lei, decidendo di tenere il figlio, di evitargli il sacrificio
nell’Aposa, ha infranto la Legge. Per cui …
Raggiunge
la tasca del giubbotto della Milizia per prendere la micro-camera che ha
filmato la scena con il dottor Marasmat, ma, confusa nei dubbi, sbaglia e
afferra il quadrante da polso, non ancora indossato. Proprio mentre una luce
verde e rossa lo illumina.
Sono
le sei e trentadue, informa il quadrante. La chiamata, nei colori
dell’emergenza, arriva dal settore sud del quartiere Santo Aposa.
-
Cosa succede? – chiede il Maestro, seccato, la mano ancora protesa verso lei.
Darlia
attiva la ricezione, curandosi di non essere in viva-voce.
-
Comandante della Milizia, pronta all’azione.
-
Ciao, Darlia, una seccatura, credo – la raggiunge la voce del Maresciallo
Amentore Cerisoni – Sembra un caso di suicido. Un uomo si è gettato dallo
studio e …
Darlia
sente il resto come in un incubo dove tutto è eco e buio.
-
Io sono impegnato nel controllo degli invalidi, questi aumentano sempre di più,
non so cosa sta succedendo, perciò … Darlia?
-
Capitano? – fa eco il Maestro – Cosa succede?
-
Ci sono – risponde lei, senza sapere a chi.
-
Devi andare tu, Darlia – prosegue il Maresciallo – Il casino è che sembra si
tratti del marito di un Giudice, come se non avessimo già abbastanza problemi.
Come
se non avessimo già abbastanza problemi, echeggia Darlia.
-
Capitano, cosa succede? – la domanda del Maestro Marasmat è ripetuta senza
nascondere fastidio – Mi vuole dare la prova per incastrare mio marito?
-
Chi c’è con te? – Cerisoni, cauto.
-
Capitano? – il Maestro, impaziente.
-
Arrivo – deglutisce Darlia e chiude la comunicazione.
Veloce,
lascia la micro-camera sul tavolo e si alza.
-
Mi scusi, Maestro e Giudice, un’emergenza. Niente di … – si morde un labbro –
ma devo proprio andare. Mi scusi.
Grazia
Marasmat si alza a sua volta.
-
Il suo comportamento è molto strano, Capitano. Mi dica cosa è successo.
-
Devo andare – ripete Darlia, con un inchino rapido – Chiedo umiltà e perdono –
aggiunge prima di uscire quasi di corsa dal bar.
Bonomia
la accoglie nell’umidità di tutti i giorni. La città arida, senza protezione
dai raggi solari, affollata di cemento. La città che deve la vita all’acqua.
Ora
Darlia corre.
Non
verso la missione, non dove il dottor Erasmo Marasmat, spinto dall’orrore della
messinscena, si è tolto la vita, beffando con la morte la vendetta della
moglie.
Corre
Darlia perché sa che tutto deve essere fatto in fretta. Salvare suo figlio.
Suo
figlio che nel buio umido del sotterraneo, a contatto con i topi neri, ha le
linfoghiandole del collo e delle ascelle orribilmente gonfie.
Non
sa di cosa si tratta, ma vede suo figlio crescere e con lui i bubboni. Lei non
è morta, ma proprio il giorno in cui metteva a punto la farsa con il Maestro,
lungo i sotterranei, vicino al nascondiglio, aveva trovato il cadavere di un
blasfemo, non autorizzato a scendere nella sacralità del fiume. E da allora,
altri due. Tutti con bubboni neri e sangue alla bocca. Darlia li aveva
seppelliti nei segreti dell’humus, il più lontano possibile dallo scorrere del
fiume.
Probabilmente
il microbioma di suo figlio, interagendo con il clima malsano, ha creato
davvero una variante della Yersinia Pestis.
Darlia
accelera il passo, salta due alla volta gli scalini, mentre scende nei
sotterranei. Nessun allarme si attiva al passaggio di un Ufficiale della
Milizia Religiosa.
Se
morte deve essere, se il Maestro vorrà vendicare il suicidio del marito
svelando il suo segreto di madre, allora che sia lei stessa a iniziare.
Inciderà
i bubboni del figlio e compierà l’estremo sacrilegio, versandone il contenuto
direttamente nell’Aposa, nella linfa di Bonomia.
Darlia
entra nei canali della città, nell’oscurità del fiume.
Ora
si sente davvero la Donna Nera.
[continua]
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