Dove scorre il fiume
Giovanni Sicuranza
3.
La notte di Darlia.
Darlia
aspetta.
Sa
che non può eccitarsi prima dell’uomo e per distrarsi cerca nel cerebrogramma
un file di immagini deprimenti.
Come
quelle statiche che ritraggono Bonomia prima della bomba alla zona Fiera, prima
della Grande Religione. Quando ancora la città si chiamava Bologna.
La
mente si riempie di case basse, tozze. Persino di pessimo gusto, con tutti quei
colori diversi, con quelle appendici esterne.
Darlia
sbatte le palpebre, veloce, una volta per uscire dal file, un’altra per tornare
a vedere l’ambiente che la circonda.
-
Come si chiamavano quelle cose sporgenti dalle abitazioni di Bologna?
-
Cosa?
Amentore
smette di bere, il bicchiere che si affloscia sul tavolo.
Guarda
Darlia, in silenzio, cercando sorvolare in fretta sui profili della sua nudità.
-
Le case della città vecchia – ripete lei, cogliendone lo sguardo perso.
Poi,
visto che l’uomo non solo sembra ancora non capire, ma ha gli occhi dilatati
sui suoi seni, con un dito disegna un quadrato nell’aria.
–
Quelle brutte, fatte in questo modo. Non come i nostri grattacieli scuri. Dai,
avevano quelle cose che sporgevano dalle mura, dove si prendeva il sole o si
curavano le piante, insomma.
Finalmente
un barlume di comprensione sembra accendere Amentore, che annuisce.
– Ah, sì, quelle sporgenze, dici. Terrazzi,
ecco, terrazzi, così li chiamavano.
-
Terrazzi – echeggia lei, come ad imprimere la parola nella mente.
-
Sì, terrazzi – Amentore sbuffa - Ma ora fai la brava e lasciami bere questa
brodaglia - solleva il bicchiere, piano, come se pesasse chili – Già il sapore
è insopportabile. E mi tocca bere tutto.
Amentore
tuffa lo sguardo nel liquido verde, denso.
Sa
che ha un gusto dolciastro, al limite del rigetto, proprio per impedirne
l’abuso. Perché questa bevanda non è altro che una forma di controllo
obbligatoria, voluta dai Maestri del Presidio Religioso per controllare la
sessualità dei cittadini.
Come
tutti i maschi, all’adolescenza anche Amentore è stato operato. E da allora ha
coaguli di silicio che ostruiscono i corpi cavernosi del pene e che solo questo
liquido è in grado di sciogliere, almeno per un giorno.
Per
ottenerlo, tuttavia, occorre un permesso.
Innanzitutto
bisogna dimostrare di essere sposati, poi di avere intenzione di procreare. Ma,
soprattutto, occorre documentare che non è possibile partecipare all’unico
giorno di sesso concesso dai Maestri ogni anno.
Poi,
c’è il placito speciale, quello riservato a persone come lui. E Darlia.
-
Coraggio – sibila Amentore, gli occhi chiusi, il bicchiere che trema sulle
labbra. E manda giù un sorso.
Da
anni la Religione è tornata ai fasti dell’antichità. Anche oggi i Maestri del
Culto hanno il potere sulla società e dirigono passo dopo passo la vita dei
cittadini. I loro desideri.
La
libertà di scelta è sovversiva.
Amentore
è assolutamente d’accordo.
Per
farsi forza, per riuscire a bere tutta la bevanda, pensa alle Grandi
Motivazioni dei Maestri.
La
libertà di scelta ha permesso ad un gruppo di fanatici di far esplodere una
serie di bombe nei centri nevralgici della città, tanti anni prima. Così, in un
soffio, Bologna è stata rasa al suolo, a cominciare dalla zona commerciale,
quella che un tempo si chiamava Quartiere Fiera. Poi è toccato al Municipio. E
gli uomini del potere non sapevano cosa fare.
Amentore
inizia a sentire la temperatura che aumenta. Ma non si preoccupa, sa che questo
è un effetto della bevanda. Il più è riuscire a berla ancora, senza vomitare. E
allora pensa, pensa.
Smarriti,
spaventati, i superstiti si erano appellati all’unica certezza rimasta. La
Divinità. Da allora i Maestri del Culto sono diventati i governatori delle
coscienze. Per mantenere l’ordine e vigilare sul rispetto dei dogmi, hanno
creato i Presidi Religiosi, in ogni città. Bonomia ne ha tre, uno in centro,
uno in collina. E uno nei canali sotterranei, il Centro Vitale, perché si trova
dove scorre il fiume Aposa, dove c’è l’acqua di Bonomia. Bene prezioso
inaridito da un sole che si dilata sempre più lungo le stagioni.
E
lui, Amentore Cerisoni, è il maresciallo capo del Presidio Religioso
dell’Aposa.
-
Ci siamo?
L’uomo
apre gli occhi e gira il viso verso Darlia. Vede che lei sorride.
-
Sì, ci siamo. Stai diventando rosso.
-
Bene – si compiace lui, le mani che iniziano ad aprire il velcro della divisa –
Con tutta la fatica...
-
E il rischio che corri – sorride lei.
Amentore
si blocca.
-
In che senso?
Darlia
si mette a sedere sulla sponda del letto, le gambe aperte, incrociate, una
caviglia sull’altra. Poi, appoggiandosi con le mani sul giaciglio, spinge
indietro il busto. Solo un po’.
-
Mi stai provocando? – ansima Amentore, sentendo la vampata di calore che scende
e si gonfia, proprio lì, in mezzo.
-
Sarebbe ora, no? – sussurra lei – Hai bevuto la bevanda e secondo la legge
posso prendere l’iniziativa.
-
Se non fosse perché io sono il maresciallo capo e tu il capitano … - inizia
Amentore, le dita che adesso corrono a disfarsi della divisa.
-
Sì, hai il permesso speciale. Quello di accoppiarti con tutte le donne della
tua Milizia.
L’uomo
si alza dalla sedia. Prima di avvicinarsi a Darlia, rimane immobile, a
guardarsi l’erezione. È un evento così raro. E pericoloso.
Chi
abusa della bevanda va incontro alla morte. Il sovradosaggio provoca una
fibrillazione cardiaca. Ma è quello che succede durante ad essere
terribile, pensa Amentore, senza smettere di osservare affascinato la sua
virilità.
Quando
la bevanda è eccessiva, o corpi cavernosi si gonfiano di sangue, in fretta, in
abbondanza. Il pene aumenta di calibro, ma non diventa duro. Le pareti restano
molli. Fino a quando non iniziano a sudare sangue.
-
Darlia – inizia, gli occhi che non abbandonano il suo nuovo profilo – Ti
ricordi di quel cittadino che abbiamo trovato nell’Aposa? Quello con il pene
esploso. È stato un anno fa.
-
Cosa vuoi dire?
Lo
sguardo di Amentore si solleva più rapido della sua erezione. Nella domanda del
capitano ha intuito un tono sospettoso.
-
Era per parlare – spiega, scrutando la donna – Si chiamava Ermete Dialogo, se
non sbaglio – una pausa, gli occhi che penetrano quelli di lei – Gli hai
fornito tu la bevanda erogena.
Darlia
non ha altre esitazioni. Non ci sono rughe nuove sul suo viso, anzi, continua a
sembrare rilassata.
-
Certo, come faccio con tanti. Sono io che controllo i permessi e distribuisco
le bevande. Quel Dialogo deve essersene fatta dare un’altra da qualcuno. Voleva
strafare, ha bevuto due porzioni e …
Amentore
la interrompe con un gesto brusco della mano.
-
Sì, va bene. Quello che mi disturba è aver scoperto il suo corpo nella
discarica. Tutte le impronte e i liquidi sul cadavere erano cancellati. Non
siamo ancora riusciti a scoprire con chi ha fatto sesso illecito – conclude,
scotendo la testa.
Per
tutta risposta, Darlia si alza in piedi e si avvicina. I suoi gesti sono lenti,
misurati, le mani dietro la nuca, il petto proteso verso l’uomo.
-
Basta parlare di questo, ora. Domani continueremo le indagini – sussurra, la
bocca che sfiora i capezzoli di lui.
Amentore
chiude gli occhi e ascolta l’alito caldo della donna sulla pelle.
Un
attimo dopo il tono roco di lei lo avvolge, un po’ più giù.
-
Oggi abbiamo il permesso speciale per fare sesso – la voce scende ancora, verso
il ventre – Sei il maresciallo capo. Devi fecondare le donne della tua Milizia.
Un
pensiero improvviso, apparentemente fuori luogo, salta dentro Amentore.
Dai
terrazzi delle case di Bologna, la città vecchia, a volte gettavano i bambini
non voluti.
Fa
per aprire la bocca, per raccontare a Darlia questo particolare.
Ma
lei è più veloce ad aprire la sua, di bocca.
E
questa volta Amentore Cerisoli, maresciallo capo del Presidio Religioso,
dimentica la storia della sua città.
***
Darlia ha gli occhi appesi sui profili bui di
Bonomia.
Dall’alto
del grattacielo la vista si perde lungo le ombre della notte. Sono le tre,
forse, ma lei sa che se spegnesse il condizionatore, ora, l’umidità sarebbe
ancora così opprimente da farla svenire in pochi minuti.
Bonomia
è una città che respira a fatica da tanti anni. Per questo l’Aposa, il fiume
che scivola nei sotterranei, è tanto prezioso. Così prezioso che il terreno
intorno ha bisogno di humus. Sempre. La carne degli animali è un ottimo
concime. Come quella dell’uomo.
Darlia
stringe le labbra. Le mani fanno lo stesso sulla vestaglia, celandole i seni
riflessi sulla vetrata.
Amentore
ha sparso il seme nel suo corpo e domani lei sarà sottoposta al trattamento di
stimolazione, in modo da produrre almeno una coppia di gemelli. Poi partorirà,
per Bonomia. Per la vita del fiume.
I
suoi figli saranno consegnati al Centro della Fertilità.
Lì
diventeranno humus che nutre l’Aposa.
È
questa la condizione del permesso speciale per il sesso.
Ci
sono molti pezzi di Amentore sparsi lungo il corso del fiume, avuti da tante
donne negli anni.
Ora
tocca a lei.
-
I terrazzi – sospira Darlia alla solitudine dell’appartamento – Erano sporgenze
sulle case donate alla città.
Come
il seme che le sta già crescendo dentro, fino a diventare sporgenza di ventre e
poi dono a Bonomia.
Gli
occhi si riempiono di lacrime sopra un bisbiglio di sorriso.
L’unica
cosa che la città ignora, che ignora persino il maresciallo capo, è che lei ha
già un figlio.
Vivo.
Nascosto
nei sotterranei.
Lo
ha avuto pochi mesi prima, da un uomo scelto tra quelli che le chiedono la
bevanda erogena.
Darlia
inizia a vestirsi. Niente divisa, per non dare nell’occhio, ma la pistola
d’ordinanza, quella sì, così come la lama elettrica d’emergenza. Avventurarsi
di notte nelle viscere di Bonomia, lungo il sacro fiume dell’Aposa, è un grande
rischio.
Ma
suo figlio ha bisogno di essere nutrito.
Il
padre, invece, non ha più bisogni.
È
morto.
Ermete
Dialogo aveva un malattia grave, che gli stava mangiando i neuroni. Questo le
aveva raccontato il giorno in cui si era presentato per richiedere una porzione
di bevanda. La terapia genetica era troppo costosa per un maestro che
guadagnava solo cento crediti vita al mese. Insegnava storia classica, aveva
aggiunto con un sorriso bello, ecco perché la medicina moderna non si curava di
lui.
La
sera dopo, Ermete l’aveva amata, dandole quello che lei desiderava.
E
lei lo aveva amato, realizzando il suo ultimo desiderio. Morire dopo una notte
di passione.
Darlia
ha un fremito di pianto lungo il corpo.
Programma
i sensori della casa per mantenere l’energia al minimo.
Le
luci si smorzano. Tutto diventa silenzio.
Il
capitano del Presidio Religioso si asciuga le ultime lacrime in un gesto
rapido, poi, prima di uscire, guarda ancora una volta oltre la vetrata, in
alto.
Tutto
sommato non doveva essere male poter uscire su un terrazzo.
Nel
fresco della notte, a scoprire le stelle.
4. Microbioma.
Lo
studio medico sa di angoscia e disinfettante. Il disinfettante copre appena
l’angoscia, trasformandosi in aroma acido.
La
donna aspetta da pochi minuti, palla nera su una sedia nera. I capelli sono
corti, notturni, così come il giubbotto liscio, con qualche luccichio di lampo,
come stelle troppo lontane nell’universo. La donna è reclinata su se stessa, il
volto chinato allo spasmo, sul petto, le gambe sollevate fino al gomito. I
talloni sono in equilibrio precario sul bordo della sedia. Tremano, tremano con
tutti gli stivali. Neri.
Se
un cadavere la vedesse, ora, così immobile e vibrante, pallida e buia,
probabilmente fuggirebbe a femori levati.
Ma
nello studio del dottor Miasmat non si vedono cadaveri da almeno due ore.
Da
quando, cioè, il custode cimiteriale del paese, venuto in ambulatorio per il
rinnovo della patente, ha borbottato: “Devo pure fare la fila, con tutti i
clienti che mi aspettano!”. Gli altri, in attesa prima di lui, hanno sorriso
imbarazzati e, all’unisono, hanno chinato gli occhi sulle riviste. Il custode
del cimitero li ha imitati, con uno sbuffo, tanto per sottolineare l’importnza
dei suoi impegni. Solo che i suoi occhi si sono dilatati sulla foto di un
celebre battesimo, patinato sul settimanale “Sorrisi & Vita”, e hanno
tratto l’ultimo battito di ciglia.
Il
dottor Miasmat non ha potuto fare altro che constatare la morte, verosimilmente
per “arresto cardiaco”, ha annunciato agli altri pazienti, stringendosi nelle
spalle, le labbra ridotte a una fessura, gli occhi di corsa all’orologio di
parete, un’imprecazione nella gola per questo inconveniente, che,
probabilmente, gli avrebbe fatto saltare la replica del Grande Medico. E
figurarsi se quella scema della moglie, intenta a leggere, solo a leggere, avrebbe
saputo come impostare la registrazione del reality.
La
gente in sala d’attesa ha reagito male. Galline spaventate in un pollaio, ha
pensato il dottor Miasmat, con l’impulso di tirare il collo a qualcuno, mentre
aspettava le pompe funebri, i carabinieri e un attacco di isteria.
Un’ora
e mezzo dopo, con un ritardo da fare concorrenza ai treni pendolari, mentre la
sala d’attesa era satura di angoscia e di gente che reclamava un disinfettante,
perché il morto poteva essere contagioso.
“Ma
figuratevi”, aveva tentato la signorina Lenticchia, segretaria del dottor
Miasmat. Non l’avevano linciata solo perché un altro cadavere sarebbe stato
troppo, ma la signorina Lenticchia aveva visto in quegli occhi, impauriti e
rabbiosi, lo spettacolo della sua morte, pupilla dopo pupilla, come in un
negozio di televisori, tutti accesi sullo stesso canale.
Allora
aveva preso la tanica di Dispersol e l’aveva versata non solo intorno al
becchino, ma sulla testa morta, sui vestiti morti e, infine, su tutto il
pavimento.
Quando
i carabinieri erano entrati, scivolando in coppia, seguiti dai conati di vomito
dei colleghi del becchino, la signorina Lenticchia era stata portata in caserma
per accertamenti, con una vaga accusa di “vilipendio di cadavere”.
Ora,
con ben due ore di ritardo sulla chiusura dell’ambulatorio, il dottor Miasmat
esce dalla sua stanza e si trova nella solitudine delle luci al neon, con
questa figura buia di donna sulla sedia che era stata occupata dal becchino.
Il
cuore fa “bum”, si ferma, quindi riparte in un ritmo sincopato. Il dottore è
costretto a sua volta a sedersi sulla sedia accanto.
-
Sì? – chiede in una flebile supplica.
La
donna nera alza appena lo sguardo e sorride. Appena.
-
Sono bella? – bisbiglia. La stanza vuota di altre vite, amplifica la domanda.
Erasmo
Miasmat ondeggia sulla sedia. Troppo lavoro. Troppo distacco dal Grande Medico.
-
L’ambulatorio è già chiuso, mi dispiace – riesce solo a dire, mentre si chiede
se in questa puntata elimineranno il Professore Maniscalco, per avere perforato
l’intestino di un volontario nella prova “Intervento a occhi chiusi”.
La
donna annuisce, comprensiva, sorride ancora. E rimane immobile.
-
Sono bella? – ripete, senza mutare tono.
Erasmo
Miasmat tuffa gli occhi nella porta accanto alla donna, unica via d’uscita.
Chiusa.
E’
in un ambulatorio deserto, stanco, demoralizzato dalla rinuncia televisiva
ormai concretizzatasi. Decide che è meglio assecondare la tipa squilibrata. In
tutti i sensi, compresa la posizione accovacciata che mantiene sulla sedia.
-
Potrebbe cadere … - inizia, conciliante. Meglio si inizia, prima si
finisce.
-
Sono …
-
Sì! – lui allunga le mani e scatta in piedi – E’ bella, stupenda,
incredibilmente sensuale! Se è questa la diagnosi che cercava, bene, abbiamo
finito, non le chiedo nemmeno l’onorario e buonasera!
Lei
non si muova. Statua nera in una stanza ammorbata di dolore e chimica.
-
Bugiardo – gli dice infine, sempre con un tono di voce che avrebbe bisogno di
una flebo ricostituente.
Il
dottor Miasmat la osserva meglio. E capisce che il Grande Medico è perso anche
nei titoli di coda.
***
-
Ho partorito tre mesi fa – annuncia lei, scandendo lentamente la frase. Così
lentamente che il dottor Miasmat ritiene opportuno non congratularsi. Una
notizia data in questo modo si trascina stanca nel dolore. Comunque, non lo
farebbe in ogni caso, seccato.
Ora
mi tedierà sulla morte prematura del figlio, sul fatto che le hanno asportato
l’utero, mi chiederà consigli, indagini, ed io non riuscirò a vedere nemmeno
l’ultimo telequiz. Unica consolazione, probabilmente la moglie sarà già
addormentata, il libro sul petto piatto, gli occhiali sbilenchi sul naso
affilato, la bocca come caverna da cui escono rantoli giganti.
La
donna nera, ancora più nera sulla poltrona verde, e minuti e pallida per ogni
tipo di poltrona, lo penetra negli occhi con lo sguardo di chi aspetta,
pretende una risposta.
Lui,
dall’altra parte della scrivania, decide che in qualche modo deve farle pagare
tutto il disagio della giornata.
Silenzio.
Erasmo
Miasmat finge di leggere il bianco della carta residuata da ricette su ricette
e, per un attimo, vedendo l’intestazione dello studio, si chiede se la
segretaria è ancora dai carabinieri. Spera sia discreta su certi trascorsi
fiscali e su un rapporto extraconiugale finito bruscamente tra le scope dello
sgabuzzino, quando la donna delle pulizie è tornata per prendere gli occhiali
dimenticati. “Ecco cos’era quella sensazione di fastidio sul sedere”, aveva
balbettato la signorina Lenticchia, arrossendo come una lampada abbronzante,
mentre porgeva i resti degli occhiali all’attonita donna. L’altra però urlava,
intervallando offese alla promessa di svelare la lussuria consumata nello
studio. All’inizio il dottor Miasmat
aveva sorriso, sornione, vedendosi famoso sui quotidiani scandalistici, poi
l’immagine di sua moglie, il ciglio severo di quel giudice persino sposato,
aveva infranto ogni sogno di popolarità. La donna della pulizie era stata
ripagata per la collezione completa della serie di occhiali, optional inclusi,
e da allora la storia tra lui e la segretaria si era fossilizzata nello
sgabuzzino.
-
Dunque?
Nei
corridoi di Erasmo Miasmat si chiudono le porte dello sgabuzzino, dei reality,
della moglie. La sua mente è solo un sottile spiraglio, sagomato sulla donna di
fronte.
Non
distrarti, non distrarti. E non lasciare che sia lei a condurre la
conversazione, o qui si fa notte.
-
Scusi? – si schiarisce la voce su quel viso nero, pallido, che lo fotografa da
quando sono entrati nell’ambulatorio – Adesso mi dica in cosa posso esserle
utile, perché …
-
Come fa a dire che sono bella?
In
effetti, si accorge Erasmo, la donna è tanto cadaverica quanto carina. Non
proprio bella, forse, ma senza dubbio “da sgabuzzino”.
-
Lo ero – aggiunge lei, come se gli avesse letto nel pensiero. Erasmo si agita
sulla poltrona.
-
Signora, mi creda, lo è ancora, ma non capisco …
-
Lo ero.
Sospiro
e afflosciarsi di Erasmo. In un unico istante.
-
Non vedo come posso aiutarla in ogni caso.
Lei
sorride e solo ora l’uomo si accorge di sentirsi inquieto. È un sorriso su
denti piccoli e appuntiti, l’anteprima a qualcosa di spiacevole. Quando la
donna nera si sporge verso lui, cerca di affondare nello schienale della
poltrona e si rilassa solo dopo che lei si è ritratta.
-
Prima del parto ero bella.
Nell’andata
e ritorno poltrona-medico, un nuovo oggetto è comparso sulla scrivania.
Erasmo
si china per vedere di cosa si tratta e per distogliere gli occhi da lei.
-
Una foto? – la prende tra le mani, le fa compiere un giro sui quattro lati,
infine ride – Beh, mi perdoni, non mi sembra che fosse bella, prima.
-
Non sono io – lo gela la donna, atona.
Erasmo
Marasmat fa cadere la foto sulla scrivania e, per la prima volta, trova lo
sguardo professionale del suo ruolo.
-
So bene, signora, chiunque lei sia, visto che ancora non si è presentata! –
palmo della mano che cade con forza sul tavolo – So bene che questa è la foto
di un batterio!
-
Fatta con la spettrometria – aggiunge lei, atona.
Marasmat
ha la certezza di trovarsi di fronte una matta e questo lo fa innervosire
ancora di più.
-
Non ho tempo da perdere, io, con i ritratti di batteri al microscopio
elettronico! –un gesto brusco della mano e la foto scivola lungo la scrivania,
fino al bordo opposto.
La
signora nera scuote appena la testa. La stanza diventa improvvisamente
soffocante. Angoscia e disinfettante, ricorda Erasmo Marasmat in un impellente bisogno di spalancare la
finestra.
-
Mi dica cosa vuole – geme, inaspettato a se stesso – Non vede com’è tardi?
La
donna nera fa sì con la testa. O almeno così sembra al medico.
-
Io sono noi. Lei è voi – svela.
Oddio,
è fuori, fuori. Erasmo si aggrappa ai braccioli della poltrona.
-
E’ un medico, nella targa sul portone ho letto che è specialista infettivologo
– pausa sul sudore di Erasmo – Quindi dovrebbe capire di cosa sto parlando.
Dovrebbe anche riconoscere il batterio nella foto.
L’uomo
non è più sicuro di essere un medico, non sa nemmeno se riuscirà a essere
ancora qualcuno prima di mezzanotte. La persona che è chiusa con lui, in
assenza di altri pazienti, in assenza della segretaria, persino della donna
delle pulizie, questa persona è una squilibrata. L’uomo scopre che la sua
identità professionale scivola via in senso crescente di disagio.
La
donna è piccola, certo, basta poco per sopraffarla, tra l’altro il tagliacarte
è affilato e vicino alle sue mani, eppure il tono della voce lo sta facendo
sudare.
È
come se stesse svelando una verità terribile. Senza scampo.
-
Noi non siamo identità singole, vero, dottore?
-
Non …
-
Ha paura, dottore?
-
Non …
-
Deve averne. Tanta.
Erasmo
apre la bocca, la sente secca, le parole che muoiono disidratate prima di
diventare voce.
-
Come sa, dottore, ognuno di noi è in realtà un microbioma. Siamo formati da
microrganismi, batteri per lo più, fino nel nostro intimo, cellula dopo
cellula. E non è un semplice rapporto di simbiosi, ma loro sono necessari alla
nostra identità come noi alla loro – lo sguardo si affila in quello di Erasmo –
Questo è vero, no?
Sissì,
si affretta a eseguire la testa di lui.
-
Quando ho partorito, mio figlio pesava cinque chili e mezzo. Mi ha squarciata,
sa.
La
donna si sporge, i gomiti neri sulla scrivania.
Sudore
freddo morde la fronte dell’uomo.
-
Ma non è questo il punto. Qualcosa di oscuro è accaduta durante il travaglio.
Credo che forzandomi così tanto, mio figlio mi abbia portato via non solo
tessuti, ma anche batteri. I miei batteri, quelli che formano i nostri
microbioma, intendo.
La
donna poggia l’unghia di un dito sulla fotografia. Lui vede che è laccata di
nero.
-
Questo è il mio nuovo profilo.
-
Cosa? – l’uomo ritrova improvvisamente il camice. L’intuizione che la verità
sia stata svelata è entrata nei suoi decenni di professione da infettivologo.
Cauto,
si sporge a sua volta verso la donna.
-
Posso … - la mano esita a un soffio da quella della donna. Lei la ritrae e
annuisce.
-
Riconosce di quale batterio si tratta?
-
Come ha avuto questa foto?
-
Oh – per la prima una traccia di umanità nel tono di lei, delusione
probabilmente – Le ho spiegato che è il mio nuovo profilo. Questo in
particolare me lo hanno preso dalla zona ascellare sinistra, ma sono così
dappertutto, perché …
-
No! – la interrompe lui, brusco – Non è possibile. Sente signora, ma come
diavolo si chiama, nemmeno il migliore esperto può riconoscere un tipo di batterio
tra i tanti, anche se gli presenta una foto tridimensionale come questa, però
qui c’è scritto … c’è scritto …
-
L’unica spiegazione è nel trauma della nascita di mio figlio. In ogni parto,
portiamo con noi parte dei microbi di nostra madre. È la nostra prima difesa
nel mondo.
-
Sì, ma non questo tipo di batterio!
-
Una mutazione post-traumatica.
Erasmo
Marasmat sa che può concludere la conversazione in un solo modo. Si alza in
piedi, per dare più autorevolezza al gesto, più verso se stesso, che nei
confronti della donna, quindi si avvicina a lei, sul fianco.
Se
è questa la rivelazione tremenda, c’è ampio spazio per farsi una lunga risata.
E peccato per il Grande Medico, davvero, così sprecato.
-
Guardi, non so da quale sito internet ha scaricato la foto, ma quello che dice
non ha senso. Quel batterio non solo non è nostro ospite, ma, per fortuna, è
scomparso da secoli nel mondo occidentale. Se lo avessimo, anche solo in una
piccola parte, questa città, lei, io, ogni uomo e donna e bambino morirebbero
tra atroci sofferenze.
-
Sono morti tutti – sussurra lei, il capo di nuovo chino, la dita pallide,
laccate di nero, che si portano al collo del giubbotto e scoprono, piano, la
carne.
Gli
occhi del dottor Erasmo Marasmat si gonfiano come palle da biliardo.
-
Ma questo …
Anche
la donna si alza, così lentamente da sembrare un sogno, così realisticamente da
fare arretrare il medico di uno, due, tre passi.
-
I medici, le ostetriche, le infermiere. I miei pochi vicini, i miei scarsi
amici. Il tecnico che mi ha scattato questa foto. Anche mio figlio, ieri. Tutti
morti con gli stessi sintomi.
La
donna in nero ignora il fagotto disteso a terra che la osserva con orrore.
-
Credevo potesse aiutarmi, dottor Marasmat. Credevo che potesse spiegarmi perché
ora tutti quelli che incontro muoiono rapidamente, tra febbre, tosse e vomito
di sangue, mentre io ho solo il corpo pieno di bubboni e vado avanti.
Dalla
posizione rannicchiata sul pavimento, Erasmo Marasmat focalizza la mano di lei
che afferra la maniglia. La mano della morte.
-
Sa, dottore – la donna si ferma un istante sull’uscio, senza voltarsi, le
parole bisbigliate che echeggiano in tutto lo studio, sopra il disinfettante –
in fondo la spiegazione credo di averla trovata io. Per qualche motivo, il mio
microbioma si è ricombinato. Ha reagito al trauma del parto riparandosi, dando
vita a una nuova colonia di batteri che vive in me, portando morte agli altri
esseri umani. In qualche modo, dottore, io sono diventata la Morte Nera.
La
porta si chiude, separando il medico dall’incubo.
Solo
quando sente anche il rumore del portone di sotto, Erasmo Marasmat si decide ad
alzarsi. Ha visto la donna oltre il vestito, i bubboni scuri che a centinaia la
rivestono come nuova epidermide.
Le
gambe sono un fremito di panico e non ha tempo di pensare ad altro, perché si
ritrova sul pavimento, con un tonfo sordo, il viso sul parquet. Tossisce su una
fitta bruciante nel petto. Allora chiude gli occhi per non vedere il sangue
uscire dalla bocca.
Quando
li riapre, forzandoli, scopre che al suo fianco c’è la foto che gli ha lasciato
la donna nera. Forse è caduta dalla scrivania, mentre ha cercato un appiglio
alla caduta.
Forse
è solo lì, a ricordargli il suo destino. E quello di tutto il mondo. Niente più
Grande Fratello. Niente più moglie acida.
Erasmo
si raggomitola come un feto e inizia a piangere.
Dai
bordi della foto, "Yersinia Pestis" sembra allungare gli pseudopodi,
come tentacoli.
Commenti