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Dove scorre il fiume - II



Dove scorre il fiume
Giovanni Sicuranza

3. La notte di Darlia.
Darlia aspetta.
Sa che non può eccitarsi prima dell’uomo e per distrarsi cerca nel cerebrogramma un file di immagini deprimenti.
Come quelle statiche che ritraggono Bonomia prima della bomba alla zona Fiera, prima della Grande Religione. Quando ancora la città si chiamava Bologna.
La mente si riempie di case basse, tozze. Persino di pessimo gusto, con tutti quei colori diversi, con quelle appendici esterne.
Darlia sbatte le palpebre, veloce, una volta per uscire dal file, un’altra per tornare a vedere l’ambiente che la circonda.
- Come si chiamavano quelle cose sporgenti dalle abitazioni di Bologna?
- Cosa?
Amentore smette di bere, il bicchiere che si affloscia sul tavolo.
Guarda Darlia, in silenzio, cercando sorvolare in fretta sui profili della sua nudità.
- Le case della città vecchia – ripete lei, cogliendone lo sguardo perso.
Poi, visto che l’uomo non solo sembra ancora non capire, ma ha gli occhi dilatati sui suoi seni, con un dito disegna un quadrato nell’aria.
– Quelle brutte, fatte in questo modo. Non come i nostri grattacieli scuri. Dai, avevano quelle cose che sporgevano dalle mura, dove si prendeva il sole o si curavano le piante, insomma.
Finalmente un barlume di comprensione sembra accendere Amentore, che annuisce.
 – Ah, sì, quelle sporgenze, dici. Terrazzi, ecco, terrazzi, così li chiamavano.
- Terrazzi – echeggia lei, come ad imprimere la parola nella mente.
- Sì, terrazzi – Amentore sbuffa - Ma ora fai la brava e lasciami bere questa brodaglia - solleva il bicchiere, piano, come se pesasse chili – Già il sapore è insopportabile. E mi tocca bere tutto.
Amentore tuffa lo sguardo nel liquido verde, denso.
Sa che ha un gusto dolciastro, al limite del rigetto, proprio per impedirne l’abuso. Perché questa bevanda non è altro che una forma di controllo obbligatoria, voluta dai Maestri del Presidio Religioso per controllare la sessualità dei cittadini.
Come tutti i maschi, all’adolescenza anche Amentore è stato operato. E da allora ha coaguli di silicio che ostruiscono i corpi cavernosi del pene e che solo questo liquido è in grado di sciogliere, almeno per un giorno. 
Per ottenerlo, tuttavia, occorre un permesso.
Innanzitutto bisogna dimostrare di essere sposati, poi di avere intenzione di procreare. Ma, soprattutto, occorre documentare che non è possibile partecipare all’unico giorno di sesso concesso dai Maestri ogni anno.
Poi, c’è il placito speciale, quello riservato a persone come lui. E Darlia.
- Coraggio – sibila Amentore, gli occhi chiusi, il bicchiere che trema sulle labbra. E manda giù un sorso.
Da anni la Religione è tornata ai fasti dell’antichità. Anche oggi i Maestri del Culto hanno il potere sulla società e dirigono passo dopo passo la vita dei cittadini. I loro desideri.
La libertà di scelta è sovversiva.
Amentore è assolutamente d’accordo.
Per farsi forza, per riuscire a bere tutta la bevanda, pensa alle Grandi Motivazioni dei Maestri.
La libertà di scelta ha permesso ad un gruppo di fanatici di far esplodere una serie di bombe nei centri nevralgici della città, tanti anni prima. Così, in un soffio, Bologna è stata rasa al suolo, a cominciare dalla zona commerciale, quella che un tempo si chiamava Quartiere Fiera. Poi è toccato al Municipio. E gli uomini del potere non sapevano cosa fare.
Amentore inizia a sentire la temperatura che aumenta. Ma non si preoccupa, sa che questo è un effetto della bevanda. Il più è riuscire a berla ancora, senza vomitare. E allora pensa, pensa.
Smarriti, spaventati, i superstiti si erano appellati all’unica certezza rimasta. La Divinità. Da allora i Maestri del Culto sono diventati i governatori delle coscienze. Per mantenere l’ordine e vigilare sul rispetto dei dogmi, hanno creato i Presidi Religiosi, in ogni città. Bonomia ne ha tre, uno in centro, uno in collina. E uno nei canali sotterranei, il Centro Vitale, perché si trova dove scorre il fiume Aposa, dove c’è l’acqua di Bonomia. Bene prezioso inaridito da un sole che si dilata sempre più lungo le stagioni.
E lui, Amentore Cerisoni, è il maresciallo capo del Presidio Religioso dell’Aposa.
- Ci siamo?
L’uomo apre gli occhi e gira il viso verso Darlia. Vede che lei sorride.
- Sì, ci siamo. Stai diventando rosso.
- Bene – si compiace lui, le mani che iniziano ad aprire il velcro della divisa – Con tutta la fatica...
- E il rischio che corri – sorride lei.
Amentore si blocca.
- In che senso?
Darlia si mette a sedere sulla sponda del letto, le gambe aperte, incrociate, una caviglia sull’altra. Poi, appoggiandosi con le mani sul giaciglio, spinge indietro il busto. Solo un po’.
- Mi stai provocando? – ansima Amentore, sentendo la vampata di calore che scende e si gonfia, proprio lì, in mezzo.
- Sarebbe ora, no? – sussurra lei – Hai bevuto la bevanda e secondo la legge posso prendere l’iniziativa.
- Se non fosse perché io sono il maresciallo capo e tu il capitano … - inizia Amentore, le dita che adesso corrono a disfarsi della divisa.
- Sì, hai il permesso speciale. Quello di accoppiarti con tutte le donne della tua Milizia.
L’uomo si alza dalla sedia. Prima di avvicinarsi a Darlia, rimane immobile, a guardarsi l’erezione. È un evento così raro. E pericoloso.
Chi abusa della bevanda va incontro alla morte. Il sovradosaggio provoca una fibrillazione cardiaca. Ma è quello che succede durante ad essere terribile, pensa Amentore, senza smettere di osservare affascinato la sua virilità.
Quando la bevanda è eccessiva, o corpi cavernosi si gonfiano di sangue, in fretta, in abbondanza. Il pene aumenta di calibro, ma non diventa duro. Le pareti restano molli. Fino a quando non iniziano a sudare sangue.
- Darlia – inizia, gli occhi che non abbandonano il suo nuovo profilo – Ti ricordi di quel cittadino che abbiamo trovato nell’Aposa? Quello con il pene esploso. È stato un anno fa.
- Cosa vuoi dire?
Lo sguardo di Amentore si solleva più rapido della sua erezione. Nella domanda del capitano ha intuito un tono sospettoso.
- Era per parlare – spiega, scrutando la donna – Si chiamava Ermete Dialogo, se non sbaglio – una pausa, gli occhi che penetrano quelli di lei – Gli hai fornito tu la bevanda erogena.
Darlia non ha altre esitazioni. Non ci sono rughe nuove sul suo viso, anzi, continua a sembrare rilassata.
- Certo, come faccio con tanti. Sono io che controllo i permessi e distribuisco le bevande. Quel Dialogo deve essersene fatta dare un’altra da qualcuno. Voleva strafare, ha bevuto due porzioni e …
Amentore la interrompe con un gesto brusco della mano.
- Sì, va bene. Quello che mi disturba è aver scoperto il suo corpo nella discarica. Tutte le impronte e i liquidi sul cadavere erano cancellati. Non siamo ancora riusciti a scoprire con chi ha fatto sesso illecito – conclude, scotendo la testa.
Per tutta risposta, Darlia si alza in piedi e si avvicina. I suoi gesti sono lenti, misurati, le mani dietro la nuca, il petto proteso verso l’uomo.
- Basta parlare di questo, ora. Domani continueremo le indagini – sussurra, la bocca che sfiora i capezzoli di lui.
Amentore chiude gli occhi e ascolta l’alito caldo della donna sulla pelle.
Un attimo dopo il tono roco di lei lo avvolge, un po’ più giù.
- Oggi abbiamo il permesso speciale per fare sesso – la voce scende ancora, verso il ventre – Sei il maresciallo capo. Devi fecondare le donne della tua Milizia.
Un pensiero improvviso, apparentemente fuori luogo, salta dentro Amentore.
Dai terrazzi delle case di Bologna, la città vecchia, a volte gettavano i bambini non voluti.
Fa per aprire la bocca, per raccontare a Darlia questo particolare.
Ma lei è più veloce ad aprire la sua, di bocca.
E questa volta Amentore Cerisoli, maresciallo capo del Presidio Religioso, dimentica la storia della sua città.   
***
 Darlia ha gli occhi appesi sui profili bui di Bonomia.
Dall’alto del grattacielo la vista si perde lungo le ombre della notte. Sono le tre, forse, ma lei sa che se spegnesse il condizionatore, ora, l’umidità sarebbe ancora così opprimente da farla svenire in pochi minuti.
Bonomia è una città che respira a fatica da tanti anni. Per questo l’Aposa, il fiume che scivola nei sotterranei, è tanto prezioso. Così prezioso che il terreno intorno ha bisogno di humus. Sempre. La carne degli animali è un ottimo concime. Come quella dell’uomo.
Darlia stringe le labbra. Le mani fanno lo stesso sulla vestaglia, celandole i seni riflessi sulla vetrata.
Amentore ha sparso il seme nel suo corpo e domani lei sarà sottoposta al trattamento di stimolazione, in modo da produrre almeno una coppia di gemelli. Poi partorirà, per Bonomia. Per la vita del fiume.
I suoi figli saranno consegnati al Centro della Fertilità.
Lì diventeranno humus che nutre l’Aposa.
È questa la condizione del permesso speciale per il sesso.
Ci sono molti pezzi di Amentore sparsi lungo il corso del fiume, avuti da tante donne negli anni.
Ora tocca a lei.
- I terrazzi – sospira Darlia alla solitudine dell’appartamento – Erano sporgenze sulle case donate alla città.
Come il seme che le sta già crescendo dentro, fino a diventare sporgenza di ventre e poi dono a Bonomia.
Gli occhi si riempiono di lacrime sopra un bisbiglio di sorriso.
L’unica cosa che la città ignora, che ignora persino il maresciallo capo, è che lei ha già un figlio.
Vivo.
Nascosto nei sotterranei.
Lo ha avuto pochi mesi prima, da un uomo scelto tra quelli che le chiedono la bevanda erogena. 
Darlia inizia a vestirsi. Niente divisa, per non dare nell’occhio, ma la pistola d’ordinanza, quella sì, così come la lama elettrica d’emergenza. Avventurarsi di notte nelle viscere di Bonomia, lungo il sacro fiume dell’Aposa, è un grande rischio.
Ma suo figlio ha bisogno di essere nutrito.
Il padre, invece, non ha più bisogni.
È morto.
Ermete Dialogo aveva un malattia grave, che gli stava mangiando i neuroni. Questo le aveva raccontato il giorno in cui si era presentato per richiedere una porzione di bevanda. La terapia genetica era troppo costosa per un maestro che guadagnava solo cento crediti vita al mese. Insegnava storia classica, aveva aggiunto con un sorriso bello, ecco perché la medicina moderna non si curava di lui.
La sera dopo, Ermete l’aveva amata, dandole quello che lei desiderava.
E lei lo aveva amato, realizzando il suo ultimo desiderio. Morire dopo una notte di passione.
Darlia ha un fremito di pianto lungo il corpo.
Programma i sensori della casa per mantenere l’energia al minimo.
Le luci si smorzano. Tutto diventa silenzio.
Il capitano del Presidio Religioso si asciuga le ultime lacrime in un gesto rapido, poi, prima di uscire, guarda ancora una volta oltre la vetrata, in alto.
Tutto sommato non doveva essere male poter uscire su un terrazzo.
Nel fresco della notte, a scoprire le stelle.



 4. Microbioma.
Lo studio medico sa di angoscia e disinfettante. Il disinfettante copre appena l’angoscia, trasformandosi in aroma acido.
La donna aspetta da pochi minuti, palla nera su una sedia nera. I capelli sono corti, notturni, così come il giubbotto liscio, con qualche luccichio di lampo, come stelle troppo lontane nell’universo. La donna è reclinata su se stessa, il volto chinato allo spasmo, sul petto, le gambe sollevate fino al gomito. I talloni sono in equilibrio precario sul bordo della sedia. Tremano, tremano con tutti gli stivali. Neri.
Se un cadavere la vedesse, ora, così immobile e vibrante, pallida e buia, probabilmente fuggirebbe a femori levati.
Ma nello studio del dottor Miasmat non si vedono cadaveri da almeno due ore.
Da quando, cioè, il custode cimiteriale del paese, venuto in ambulatorio per il rinnovo della patente, ha borbottato: “Devo pure fare la fila, con tutti i clienti che mi aspettano!”. Gli altri, in attesa prima di lui, hanno sorriso imbarazzati e, all’unisono, hanno chinato gli occhi sulle riviste. Il custode del cimitero li ha imitati, con uno sbuffo, tanto per sottolineare l’importnza dei suoi impegni. Solo che i suoi occhi si sono dilatati sulla foto di un celebre battesimo, patinato sul settimanale “Sorrisi & Vita”, e hanno tratto l’ultimo battito di ciglia.
Il dottor Miasmat non ha potuto fare altro che constatare la morte, verosimilmente per “arresto cardiaco”, ha annunciato agli altri pazienti, stringendosi nelle spalle, le labbra ridotte a una fessura, gli occhi di corsa all’orologio di parete, un’imprecazione nella gola per questo inconveniente, che, probabilmente, gli avrebbe fatto saltare la replica del Grande Medico. E figurarsi se quella scema della moglie, intenta a leggere, solo a leggere, avrebbe saputo come impostare la registrazione del reality.
La gente in sala d’attesa ha reagito male. Galline spaventate in un pollaio, ha pensato il dottor Miasmat, con l’impulso di tirare il collo a qualcuno, mentre aspettava le pompe funebri, i carabinieri e un attacco di isteria.
Un’ora e mezzo dopo, con un ritardo da fare concorrenza ai treni pendolari, mentre la sala d’attesa era satura di angoscia e di gente che reclamava un disinfettante, perché il morto poteva essere contagioso.
“Ma figuratevi”, aveva tentato la signorina Lenticchia, segretaria del dottor Miasmat. Non l’avevano linciata solo perché un altro cadavere sarebbe stato troppo, ma la signorina Lenticchia aveva visto in quegli occhi, impauriti e rabbiosi, lo spettacolo della sua morte, pupilla dopo pupilla, come in un negozio di televisori, tutti accesi sullo stesso canale.
Allora aveva preso la tanica di Dispersol e l’aveva versata non solo intorno al becchino, ma sulla testa morta, sui vestiti morti e, infine, su tutto il pavimento.
Quando i carabinieri erano entrati, scivolando in coppia, seguiti dai conati di vomito dei colleghi del becchino, la signorina Lenticchia era stata portata in caserma per accertamenti, con una vaga accusa di “vilipendio di cadavere”.
Ora, con ben due ore di ritardo sulla chiusura dell’ambulatorio, il dottor Miasmat esce dalla sua stanza e si trova nella solitudine delle luci al neon, con questa figura buia di donna sulla sedia che era stata occupata dal becchino.
Il cuore fa “bum”, si ferma, quindi riparte in un ritmo sincopato. Il dottore è costretto a sua volta a sedersi sulla sedia accanto.
- Sì? – chiede in una flebile supplica.
La donna nera alza appena lo sguardo e sorride. Appena.
- Sono bella? – bisbiglia. La stanza vuota di altre vite, amplifica la domanda.
Erasmo Miasmat ondeggia sulla sedia. Troppo lavoro. Troppo distacco dal Grande Medico.
- L’ambulatorio è già chiuso, mi dispiace – riesce solo a dire, mentre si chiede se in questa puntata elimineranno il Professore Maniscalco, per avere perforato l’intestino di un volontario nella prova “Intervento a occhi chiusi”. 
La donna annuisce, comprensiva, sorride ancora. E rimane immobile.
- Sono bella? – ripete, senza mutare tono.
Erasmo Miasmat tuffa gli occhi nella porta accanto alla donna, unica via d’uscita. Chiusa.
E’ in un ambulatorio deserto, stanco, demoralizzato dalla rinuncia televisiva ormai concretizzatasi. Decide che è meglio assecondare la tipa squilibrata. In tutti i sensi, compresa la posizione accovacciata che mantiene sulla sedia.
- Potrebbe cadere … - inizia, conciliante. Meglio si inizia, prima si finisce. 
- Sono …
- Sì! – lui allunga le mani e scatta in piedi – E’ bella, stupenda, incredibilmente sensuale! Se è questa la diagnosi che cercava, bene, abbiamo finito, non le chiedo nemmeno l’onorario e buonasera!
Lei non si muova. Statua nera in una stanza ammorbata di dolore e chimica.
- Bugiardo – gli dice infine, sempre con un tono di voce che avrebbe bisogno di una flebo ricostituente.
Il dottor Miasmat la osserva meglio. E capisce che il Grande Medico è perso anche nei titoli di coda.

***
- Ho partorito tre mesi fa – annuncia lei, scandendo lentamente la frase. Così lentamente che il dottor Miasmat ritiene opportuno non congratularsi. Una notizia data in questo modo si trascina stanca nel dolore. Comunque, non lo farebbe in ogni caso, seccato.
Ora mi tedierà sulla morte prematura del figlio, sul fatto che le hanno asportato l’utero, mi chiederà consigli, indagini, ed io non riuscirò a vedere nemmeno l’ultimo telequiz. Unica consolazione, probabilmente la moglie sarà già addormentata, il libro sul petto piatto, gli occhiali sbilenchi sul naso affilato, la bocca come caverna da cui escono rantoli giganti.
La donna nera, ancora più nera sulla poltrona verde, e minuti e pallida per ogni tipo di poltrona, lo penetra negli occhi con lo sguardo di chi aspetta, pretende una risposta.
Lui, dall’altra parte della scrivania, decide che in qualche modo deve farle pagare tutto il disagio della giornata.
Silenzio.
Erasmo Miasmat finge di leggere il bianco della carta residuata da ricette su ricette e, per un attimo, vedendo l’intestazione dello studio, si chiede se la segretaria è ancora dai carabinieri. Spera sia discreta su certi trascorsi fiscali e su un rapporto extraconiugale finito bruscamente tra le scope dello sgabuzzino, quando la donna delle pulizie è tornata per prendere gli occhiali dimenticati. “Ecco cos’era quella sensazione di fastidio sul sedere”, aveva balbettato la signorina Lenticchia, arrossendo come una lampada abbronzante, mentre porgeva i resti degli occhiali all’attonita donna. L’altra però urlava, intervallando offese alla promessa di svelare la lussuria consumata nello studio.  All’inizio il dottor Miasmat aveva sorriso, sornione, vedendosi famoso sui quotidiani scandalistici, poi l’immagine di sua moglie, il ciglio severo di quel giudice persino sposato, aveva infranto ogni sogno di popolarità. La donna della pulizie era stata ripagata per la collezione completa della serie di occhiali, optional inclusi, e da allora la storia tra lui e la segretaria si era fossilizzata nello sgabuzzino.
- Dunque?
Nei corridoi di Erasmo Miasmat si chiudono le porte dello sgabuzzino, dei reality, della moglie. La sua mente è solo un sottile spiraglio, sagomato sulla donna di fronte.
Non distrarti, non distrarti. E non lasciare che sia lei a condurre la conversazione, o qui si fa notte.
- Scusi? – si schiarisce la voce su quel viso nero, pallido, che lo fotografa da quando sono entrati nell’ambulatorio – Adesso mi dica in cosa posso esserle utile, perché …
- Come fa a dire che sono bella?
In effetti, si accorge Erasmo, la donna è tanto cadaverica quanto carina. Non proprio bella, forse, ma senza dubbio “da sgabuzzino”.
- Lo ero – aggiunge lei, come se gli avesse letto nel pensiero. Erasmo si agita sulla poltrona.
- Signora, mi creda, lo è ancora, ma non capisco …
- Lo ero.
Sospiro e afflosciarsi di Erasmo. In un unico istante.
- Non vedo come posso aiutarla in ogni caso.
Lei sorride e solo ora l’uomo si accorge di sentirsi inquieto. È un sorriso su denti piccoli e appuntiti, l’anteprima a qualcosa di spiacevole. Quando la donna nera si sporge verso lui, cerca di affondare nello schienale della poltrona e si rilassa solo dopo che lei si è ritratta.
- Prima del parto ero bella.
Nell’andata e ritorno poltrona-medico, un nuovo oggetto è comparso sulla scrivania.
Erasmo si china per vedere di cosa si tratta e per distogliere gli occhi da lei.
- Una foto? – la prende tra le mani, le fa compiere un giro sui quattro lati, infine ride – Beh, mi perdoni, non mi sembra che fosse bella, prima.
- Non sono io – lo gela la donna, atona.
Erasmo Marasmat fa cadere la foto sulla scrivania e, per la prima volta, trova lo sguardo professionale del suo ruolo.
- So bene, signora, chiunque lei sia, visto che ancora non si è presentata! – palmo della mano che cade con forza sul tavolo – So bene che questa è la foto di un batterio!
- Fatta con la spettrometria – aggiunge lei, atona.
Marasmat ha la certezza di trovarsi di fronte una matta e questo lo fa innervosire ancora di più.
- Non ho tempo da perdere, io, con i ritratti di batteri al microscopio elettronico! –un gesto brusco della mano e la foto scivola lungo la scrivania, fino al bordo opposto.
La signora nera scuote appena la testa. La stanza diventa improvvisamente soffocante. Angoscia e disinfettante, ricorda Erasmo Marasmat  in un impellente bisogno di spalancare la finestra.
- Mi dica cosa vuole – geme, inaspettato a se stesso – Non vede com’è tardi?
La donna nera fa sì con la testa. O almeno così sembra al medico.
- Io sono noi. Lei è voi – svela.
Oddio, è fuori, fuori. Erasmo si aggrappa ai braccioli della poltrona.
- E’ un medico, nella targa sul portone ho letto che è specialista infettivologo – pausa sul sudore di Erasmo – Quindi dovrebbe capire di cosa sto parlando. Dovrebbe anche riconoscere il batterio nella foto.
L’uomo non è più sicuro di essere un medico, non sa nemmeno se riuscirà a essere ancora qualcuno prima di mezzanotte. La persona che è chiusa con lui, in assenza di altri pazienti, in assenza della segretaria, persino della donna delle pulizie, questa persona è una squilibrata. L’uomo scopre che la sua identità professionale scivola via in senso crescente di disagio.
La donna è piccola, certo, basta poco per sopraffarla, tra l’altro il tagliacarte è affilato e vicino alle sue mani, eppure il tono della voce lo sta facendo sudare.
È come se stesse svelando una verità terribile. Senza scampo.
- Noi non siamo identità singole, vero, dottore?
- Non …
- Ha paura, dottore?
- Non …
- Deve averne. Tanta.
Erasmo apre la bocca, la sente secca, le parole che muoiono disidratate prima di diventare voce.
- Come sa, dottore, ognuno di noi è in realtà un microbioma. Siamo formati da microrganismi, batteri per lo più, fino nel nostro intimo, cellula dopo cellula. E non è un semplice rapporto di simbiosi, ma loro sono necessari alla nostra identità come noi alla loro – lo sguardo si affila in quello di Erasmo – Questo è vero, no?
Sissì, si affretta a eseguire la testa di lui.
- Quando ho partorito, mio figlio pesava cinque chili e mezzo. Mi ha squarciata, sa.
La donna si sporge, i gomiti neri sulla scrivania.
Sudore freddo morde la fronte dell’uomo.
- Ma non è questo il punto. Qualcosa di oscuro è accaduta durante il travaglio. Credo che forzandomi così tanto, mio figlio mi abbia portato via non solo tessuti, ma anche batteri. I miei batteri, quelli che formano i nostri microbioma, intendo.
La donna poggia l’unghia di un dito sulla fotografia. Lui vede che è laccata di nero.
- Questo è il mio nuovo profilo.
- Cosa? – l’uomo ritrova improvvisamente il camice. L’intuizione che la verità sia stata svelata è entrata nei suoi decenni di professione da infettivologo.
Cauto, si sporge a sua volta verso la donna.
- Posso … - la mano esita a un soffio da quella della donna. Lei la ritrae e annuisce.
- Riconosce di quale batterio si tratta?
- Come ha avuto questa foto?
- Oh – per la prima una traccia di umanità nel tono di lei, delusione probabilmente – Le ho spiegato che è il mio nuovo profilo. Questo in particolare me lo hanno preso dalla zona ascellare sinistra, ma sono così dappertutto, perché …
- No! – la interrompe lui, brusco – Non è possibile. Sente signora, ma come diavolo si chiama, nemmeno il migliore esperto può riconoscere un tipo di batterio tra i tanti, anche se gli presenta una foto tridimensionale come questa, però qui c’è scritto … c’è scritto …
- L’unica spiegazione è nel trauma della nascita di mio figlio. In ogni parto, portiamo con noi parte dei microbi di nostra madre. È la nostra prima difesa nel mondo.
- Sì, ma non questo tipo di batterio!
- Una mutazione post-traumatica.
Erasmo Marasmat sa che può concludere la conversazione in un solo modo. Si alza in piedi, per dare più autorevolezza al gesto, più verso se stesso, che nei confronti della donna, quindi si avvicina a lei, sul fianco.
Se è questa la rivelazione tremenda, c’è ampio spazio per farsi una lunga risata. E peccato per il Grande Medico, davvero, così sprecato.
- Guardi, non so da quale sito internet ha scaricato la foto, ma quello che dice non ha senso. Quel batterio non solo non è nostro ospite, ma, per fortuna, è scomparso da secoli nel mondo occidentale. Se lo avessimo, anche solo in una piccola parte, questa città, lei, io, ogni uomo e donna e bambino morirebbero tra atroci sofferenze.
- Sono morti tutti – sussurra lei, il capo di nuovo chino, la dita pallide, laccate di nero, che si portano al collo del giubbotto e scoprono, piano, la carne.
Gli occhi del dottor Erasmo Marasmat si gonfiano come palle da biliardo.
- Ma questo …
Anche la donna si alza, così lentamente da sembrare un sogno, così realisticamente da fare arretrare il medico di uno, due, tre passi.
- I medici, le ostetriche, le infermiere. I miei pochi vicini, i miei scarsi amici. Il tecnico che mi ha scattato questa foto. Anche mio figlio, ieri. Tutti morti con gli stessi sintomi.
La donna in nero ignora il fagotto disteso a terra che la osserva con orrore.
- Credevo potesse aiutarmi, dottor Marasmat. Credevo che potesse spiegarmi perché ora tutti quelli che incontro muoiono rapidamente, tra febbre, tosse e vomito di sangue, mentre io ho solo il corpo pieno di bubboni e vado avanti.
Dalla posizione rannicchiata sul pavimento, Erasmo Marasmat focalizza la mano di lei che afferra la maniglia. La mano della morte.
- Sa, dottore – la donna si ferma un istante sull’uscio, senza voltarsi, le parole bisbigliate che echeggiano in tutto lo studio, sopra il disinfettante – in fondo la spiegazione credo di averla trovata io. Per qualche motivo, il mio microbioma si è ricombinato. Ha reagito al trauma del parto riparandosi, dando vita a una nuova colonia di batteri che vive in me, portando morte agli altri esseri umani. In qualche modo, dottore, io sono diventata la Morte Nera.
La porta si chiude, separando il medico dall’incubo.
Solo quando sente anche il rumore del portone di sotto, Erasmo Marasmat si decide ad alzarsi. Ha visto la donna oltre il vestito, i bubboni scuri che a centinaia la rivestono come nuova epidermide.
Le gambe sono un fremito di panico e non ha tempo di pensare ad altro, perché si ritrova sul pavimento, con un tonfo sordo, il viso sul parquet. Tossisce su una fitta bruciante nel petto. Allora chiude gli occhi per non vedere il sangue uscire dalla bocca.
Quando li riapre, forzandoli, scopre che al suo fianco c’è la foto che gli ha lasciato la donna nera. Forse è caduta dalla scrivania, mentre ha cercato un appiglio alla caduta.
Forse è solo lì, a ricordargli il suo destino. E quello di tutto il mondo. Niente più Grande Fratello. Niente più moglie acida.
Erasmo si raggomitola come un feto e inizia a piangere. 
Dai bordi della foto, "Yersinia Pestis" sembra allungare gli pseudopodi, come tentacoli.

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